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Contro il latino a scuola

Contro il latino a scuola

Il latino, inteso come lingua, è stato forse la materia di studio che più ho disprezzato mentre la subivo negli anni di liceo scientifico. Oggi però mi trovo nel 2022 e c’è ormai più di una decade a separarmi dall’ultima volta in cui sono stato costretto a una versione. Perché quindi ne parlo ora? Per colpa di tre spunti in cui mi è capitato di imbattermi nel mio passato recente.

Il primo viene da Ultralearning, libro che rientra nelle mie letture del 2021 e che mi ha fatto conoscere il problema del transfer. Tale problema, come spiegherò più avanti, si lega al soggetto di questo post e mi aiuterà a rispondere a un presunto beneficio che mi sono sentito portare come motivazione a supporto dell’insegnamento del latino.

Il secondo spunto proviene da un altro libro, Elogio dell’ozio di Bertrand Russell, in cui compare una breve critica allo studio di latino e greco. Si racconta che, nel quindicesimo secolo, le due lingue classiche erano indispensabili perché gran parte della letteratura era fruibile solo in una di queste (o in italiano). Ma ciò non era più vero già nel ventesimo secolo di Russell, il quale denunciava quindi la perdita di utilità dello studio di quelle lingue morte a favore di lingue moderne e altri argomenti.

Infine, l’ultimo spunto viene da una news “recente”. Io mi disinteresso di quasi tutto e non seguo le notizie, ma sfuggirvi totalmente è quasi impossibile — chi ci ha provato lo sa. Nel caso specifico, è capitato che un amico mi raccontasse di un’affermazione del ministro Cingolani, persona di cui io, coerentemente con quanto appena detto, non so un fico secco. In parole povere, il ministro ha sostenuto il bisogno di ribilanciare, nella scuola, cultura umanistica e cultura tecnica a favore di quest’ultima, a fronte delle necessità dei tempi moderni.

E quindi, riferimento dopo riferimento, mi è venuta voglia di dare voce al me stesso quindicenne, e rispondere a una serie di motivazioni che venivano (e vengono) addotte a supporto dell’insegnamento della lingua di Cicerone nella scuola di oggi. (Inutile dirlo, lo studio autonomo che nasce dal desiderio personale resta fuori dal mio discorso, dato che ognuno è libero di usare il suo tempo come meglio crede.)

Mischiare lingua e cultura

Una prima classe di argomenti comprende quelli che collegano studio della lingua e studio della cultura della civiltà che la usava. In questo calderone rientrano motivazioni quali: il latino aiuta a comprendere che il presente discende dal passato; il latino racconta storia ed evoluzione della cultura; da latini e greci deriviamo la retorica; la letteratura latina ci fa conoscere grandi pensatori; tradurre i classici evidenzia somiglianze con quanto viviamo oggi.

Il problema di queste ragioni è che non rispondono al perché studiare la lingua. La lingua fa parte dei segni tramite cui la cultura viene espressa, ma non è equivalente a essa e l’apprendimento di una non determina la conoscenza dell’altra. Imparare grammatica e vocabolario né genera conoscenza di storia, letteratura, o filosofia della civiltà che ne faceva uso, né costituisce condizione necessaria a tale conoscenza.

Risposte di questo tipo, quindi, sono valide solo se portate a supporto dello studio della cultura latina. Chi le sostiene forse guarda all’insegnamento di lingua e cultura come se i due aspetti componessero un unico blocco indivisibile, ma così non è e le due materie possono vivere indipendentemente. Se, e in che misura, poi sia adeguato concentrarsi sulla civiltà latina è una questione a sé stante.

Sulla scia dello stesso discorso ho incontrato un’altra motivazione, forse la più logica del gruppo, e cioè l’argomento secondo cui passare dalla lingua sarebbe indispensabile per studiare in modo serio una civiltà, poiché la lingua la influenza e la plasma. La ragionevolezza di un simile argomento nel contesto scolastico si regge su due pilastri: (1) l’assunto che la lingua influenzi e plasmi la civiltà che la usa, e (2) la necessità di uno studio serio di quella civiltà.

Riguardo al primo punto bisognerebbe valutare se è valido e in che misura, ma, dalla mia posizione di ignorante in materia, non ho molto da obiettare: suona come un’affermazione che potrebbe avere senso. Muovendomi al secondo punto, parto dicendo che nutro qualche dubbio sull’esatta definizione di “serio”, ma credo che si intenda come sinonimo di completo o profondo. Se così è, è chiaro che la conoscenza del latino sia una delle tante tessere che compongono la più ampia conoscenza della civiltà latina. In quest’ottica, è certamente essenziale studiare la lingua per completare il mosaico — o, piuttosto, per avvicinarsi al completamento, dato che raggiungerlo è impossibile. Ma il fatto che studiare la lingua soddisfi un’aspirazione di completezza non funge da motivazione per quella stessa aspirazione. L’argomento della serietà, quindi, non risponde alla domanda alla base di questo post, ma al più le cambia forma. Perché, nel contesto della scuola, si dovrebbe mirare a “completare” la civiltà latina al punto di studiarne la lingua?

Comprensione e padronanza delle lingue

Un secondo blocco di motivazioni contiene quelle che indicano che lo studio della defunta genitrice sia di beneficio per comprendere e padroneggiare le lingue discendenti e non solo. Nel blocco troviamo ad esempio: conoscere il latino significa conoscere in modo più consapevole e più completo le lingue romanze; la lingua latina permette di inoltrarsi nelle parole e di possederne il significato in maniera più profonda; studiare il latino aiuta a imparare le lingue moderne, non solo quelle romanze.

Parte di queste ragioni rientrano nel calderone degli “argomenti etimologici”, poiché suggeriscono che la conoscenza di una lingua migliori con l’abilità di identificare la provenienza delle parole che la compongono.

Il primo punto debole di argomenti simili è che sono affetti da quella che si definisce fallacia etimologica, cioè la convinzione che risalire all’etimologia di una parola permetta di arrivare al suo vero significato. Non è chiaro su che basi poggi tale convinzione. I vocaboli non sono entità appartenenti alla natura fisica dell’universo: esistono per invenzione degli esseri umani, i quali deliberano — più o meno metaforicamente — sul loro significato. Le parole non sono portatrici di verità intrinseca e il loro significato può cambiare e cambia nel tempo. L’indagine etimologica, quindi, è un esercizio di ricostruzione storica e non è necessario alla comprensione o all’uso di una lingua. (Ma poi, anche sotto la falsa ipotesi che l’etimologia riveli il vero significato, perché dovremmo fermarci al latino? I vocaboli latini non sono certo i primi mai inventati: non sarebbe, quella presunta verità, da ricercare alla sorgente dell’albero genealogico?)

A questo punto si potrebbe sostenere che, a prescindere dalla fallacia appena descritta, la consapevolezza etimologica contribuisca comunque alla conoscenza di una lingua. Imparare che “estate” discende dal latino per “calore” aggiunge un’informazione al mio bagaglio culturale. Sebbene ciò sia vero, dobbiamo fare attenzione a che tipo di conoscenza ci stiamo riferendo: della lingua o sulla lingua? Sapere cosa “estate” significhi è conoscenza della lingua, sapere da dove “estate” derivi è conoscenza sulla lingua. Ma mentre lo studio scolastico finalizzato alla conoscenza della lingua trova facilmente giustificazione nell’esigenza di comunicare, lo stesso non si può dire di quello che punta alla conoscenza sulla lingua.

Da notare che un discorso simile a quello appena fatto si applica, in casi analoghi, anche al di fuori del campo puramente etimologico. Si applica, per esempio, all’osservazione per cui l’italiano eredita non solo sul fronte lessicale ma anche su quello grammaticale.

Infine, tra le motivazioni appartenenti a questo filone c’è quella secondo cui imparare il latino aiuterebbe, poi, ad apprendere le lingue moderne. A questo proposito bisognerebbe innanzitutto vedere quali sono le prove a supporto di questa affermazione, senza cadere in aneddoti o correlazioni che non hanno potenza dimostrativa. Un’osservazione del tipo “Gli studenti di Lettere, che presumiamo abbiano una buona preparazione nelle lingue classiche, riescono a capire velocemente un testo tedesco” non dimostra un rapporto di causa–effetto (e anzi soffre di bias di selezione).

Ma, poiché mi sembra un’ipotesi ragionevole, sono disposto a concedere che avere appreso più lingue possa rendere agevole studiarne di nuove. Se questo è vero, però, perché la scelta dovrebbe ricadere sul latino? Perché dovrei studiare una lingua non parlata quando posso studiarne un’altra che, oltre al presunto beneficio di favorire l’apprendimento di lingue successive, ha anche il vantaggio di essere spendibile nel mondo in cui vivo? Inoltre, c’è almeno una lingua più adatta del latino se si vuole favorire, per esempio, lo studio del tedesco: il tedesco. O si sta forse affermando che il latino abbia una potenza unica che non trova eguali in nessuna lingua corrente? In quel caso sarà meglio trovarle, le prove, e anche molto convincenti.

Allenare il cervello

Arriviamo infine alla mia categoria preferita, quella delle motivazioni che poggiano sull’assunto per cui il latino fungerebbe da palestra per le abilità cognitive. Qui troviamo postulati del tipo: il latino è una lingua logica e insegna a ragionare; permette di sviluppare capacità di sintesi, ricerca e astrazione applicabili in tutti i campi di studio e della vita; allena la capacità di osservazione, di analisi, e di attenzione al minimo dettaglio; sviluppa una capacità di comprensione degli eventi.

Idee di questo tipo alludono a un fenomeno conosciuto col nome di transfer of learning (trasferimento di apprendimento), e sono diffuse anche al di fuori del discorso sul latino. Il transfer avviene quando qualcosa che è stato imparato in un contesto trova applicazione in un contesto diverso. Si ha del transfer, per esempio, se avere imparato le sottrazioni in classe si traduce nell’abilità di calcolare il resto al supermercato o se avere imparato a guidare l’automobile aiuta a imparare a guidare il camion.

È chiaro che una qualche forma di transfer debba esistere, essendo esso presupposto dell’apprendimento. Difatti mai il contesto di studio coincide con quello di applicazione, sia pure per differenze minori come la distanza fisica o temporale. A questo punto però bisogna chiedersi quando è lecito aspettarsi del transfer. Un’affermazione che sostiene che imparare a tradurre dal latino alleni la capacità di ragionare, presuppone trasferimento da un contesto (versione di latino) a tutti gli altri, la gran parte dei quali estremamente diversi. Posso davvero aspettarmi che saper svolgere una versione mi insegni a ragionare per risolvere un problema di termodinamica?

Purtroppo (per tutti), decenni di ricerca rispondono negativamente a domande simili. Per esempio, nell’introduzione al suo Transfer of Learning, lo psicologo Robert Haskell scrive che i risultati della ricerca negli ultimi nove decenni mostrano chiaramente che, come individui e istituzioni educative, abbiamo fallito nell’ottenere transfer a livello significativo ([…] research findings over the past nine decades clearly show that as individuals, and as educational institutions, we have failed to achieve transfer of learning on any significant level). Continua poi citando la prefazione di Teaching for Transfer, nella quale si nota come i ricercatori abbiano avuto più successo nel mostrare che le persone non riescono a trasferire l’apprendimento più che nel mostrare che ci riescono (Researchers have been more successful in showing how people fail to transfer learning than they have been in producing it […]).

Chi sostiene che il latino accresca le capacità cognitive al di là dell’ambito del latino stesso si ritrova, quindi, con l’onere di portare prove molto forti a favore di questa tesi e, fintanto che non lo fa, non può pretendere di avere ragione, visto che la ricerca evidenzia semmai l’opposto.

Per concludere il discorso, vale la pena di fare una breve riflessione in cui immaginiamo di vivere in un mondo in cui il transfer è più semplice di quanto non lo sia nel nostro. In questo mondo ipotetico, un ipotetico essere umano che studiasse il latino effettivamente ne riceverebbe benefici in altri campi di applicazione. Perché però, in questo caso, si dovrebbe preferire il latino allo studio di uno tra le miriadi di altri argomenti che porterebbero gli stessi vantaggi? Perché mai un’ipotetica scuola dovrebbe proporre il latino, quando può offrire altre materie come informatica, logica, retorica, pensiero critico, economia, psicologia, tedesco, cinese — o qualsiasi materia attuale — che, oltre a garantire l’ipotetico transfer sarebbero anche potenzialmente utilizzabili di per sé? Neanche in questo mondo il transfer basterebbe, da solo, come giustificazione.

Conclusione

A metà del tredicesimo anno di distanza dalla fine della mia esperienza nella scuola dell’obbligo, mi sembra ancora illogico propugnare lo studio del latino. Leggere opinioni, motivazioni, e ricerche non è servito a farmi cambiare idea e, semmai, ha contribuito a rafforzare quanto già pensavo mentre vivevo e soffrivo quell’illogicità.

Credo non sia ragionevole aspettarsi alcun cambiamento sostanziale su questo fronte dato che, per quanto ne so, ciò non sembra essere tra le priorità in Italia. Del resto nasciamo in un paese in cui si tende ancora a pensare che esista una differenza di importanza tra cultura umanistica e cultura scientifica a favore della prima. È anche per questo che una proposta, apparentemente ragionevole, di aggiornare la scuola per stare al passo coi tempi riceve fischi e derisione più che applausi. Ed è, di nuovo, per lo stesso motivo che forse si pretende troppo quando, a coloro che fischiano, si chiede di accompagnare la derisione con buone argomentazioni.

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