Possibile non significa bello

Non ammalarsi è impossibile

Yo peeps, benvenuti ai nuovi e bentornati ai vecchi nella ProtoNewsletter, il posto in cui condivido spunti, deliri, idee, e ogni tanto consigli di dubbia utilità.

Prima di cominciare, un PSA: ho deciso che inizierò a pubblicare alcuni testi delle newsletter come articoli, per dargli più dignità sul sito. Quindi se qualcuno di voi old-stylers è iscritto al feed RSS se li vedrà (ri)spuntare.

Anyway, on to today’s topic. Oggi un pensiero estremamente banale che volevo elaborare da un po’ di tempo.

Ho la tosse. Preferirei non averla. Anzi, preferirei non averla mai avuta e non averla mai più. A dirla tutta, se proprio devo essere onesto, preferirei stare sempre in salute, non dovermi ammalare mai, e vivere finché mi va. Chiaramente ciò è impossibile o, quantomeno, altamente improbabile. Anche tralasciando la questione “vivere finché mi va”, che mi sembra un traguardo irrealistico nel breve termine, il resto rimarrebbe comunque una impossibilità — forse non totale ma di fatto. Sfuggire alle malattie non si può, mi dispiace. Il che non mi rallegra, perché significa che potrò ammalarmi ancora, e poi ancora, e poi ancora, e poi ancora, fino alla fine della mia esistenza.

A valle di una triste consapevolezza vorrei porre un quesito che definirei quasi retorico, se non fosse che a volte sembra non esserlo (o si finge che non lo sia). La domanda è: il fatto che ammalarsi sia (praticamente) inevitabile, rende bella la malattia? Penso di non peccare di arroganza se mi sento quasi sicuro che la risposta sia “no”, almeno per gli esseri in grado di soffrire (insieme in cui inserisco i lettori umani di questo testo).

Questo esempio specifico può essere tradotto in termini più generali dicendo che l’impossibilità di qualcosa non basta per qualificare l’opposto come bello, buono, desiderabile, ammirevole, lodevole, positivo, etcetera etcetera. “X è impossibile” non implica “non-X è bello” poiché, se questa implicazione ci fosse, ci troveremmo a dover asserire che “non ammalarsi è impossibile” implica “ammalarsi è bello”, che contraddice quanto abbiamo concordato poco sopra.

Bene.

Qualche tempo fa, su WesaChannel, uscì un video su critica e conflitto di interessi in Italia (e poi, altrove, il suo testo). Il discorso ruota attorno all’idea che la critica, per definirsi tale e per essere credibile, debba essere indipendente, poiché quella in conflitto di interessi manca di libertà e somiglia più alla pubblicità. Che credibilità ha la tua opinione sugli smartphone se hai accordi commerciali con Apple?

Il video generò una serie di reazioni più o meno forti, sia di appoggio che in contrasto. Di obiezioni se ne videro in varie (ma non infinite) forme, e una in particolare è quella che mi ha fatto venire voglia di scrivere queste parole. Tale obiezione si basa sull’assunto che certi progetti siano insostenibili se si rimane indipendenti dalle aziende che operano nel settore che si vuole criticare. Instaurarci accordi commerciali o accettare privilegi sarebbe, secondo questa visione della realtà, necessario all’esistenza stessa del progetto. Se apro un sito di critica cinematografica sarà normale — anzi necessario — renderlo sostenibile facendomi pagare da Warner, Sony, Disney per mostrare le pubblicità dei loro film o accettando da loro regali e inviti a prime visioni. In qualche modo devo pur tirare a campà.

Un’obiezione di questo tipo suggerisce che la presunta impossibilità di rendere l’indipendenza sostenibile (ri)qualifichi le opinioni in conflitto di interessi, invece sostenibili. Ma anche assumendo che tale impossibilità sia reale e non solo presunta, comunque essa potrebbe funzionare al più da spiegazione per la scelta di rinunciare all’indipendenza e non da qualifica per le opinioni. Come per il caso delle malattie, asserire “la critica indipendente sostenibile è impossibile” non implica “la critica in conflitto di interessi è bella”.

Insomma, ci sono specchi meno scivolosi su cui arrampicarsi.

Cose

Restando in tema di quasi impossibilità, iniziamo con un pezzo in cui Scott Alexander parla del problema delle euristiche che funzionano quasi sempre. Possiamo sostituire gran parte degli esperti con pietre? Heuristics That Almost Always Work

Continuiamo con un video in cui mi sono imbattuto non-ricordo-come-forse-su-hackernews e accidentalmente collegato al tema degli esperti ma stavolta in chiave tragicomica (consigliato soprattutto a chi si era già incazzato con The Expert):

Con un altro inaspettato quasi-collegamento di tema ci ritroviamo su un video delirante in cui si “dimostra”, tra le altre cose, che 1 + 1 = 1, che π > ∞, e che la fusione nucleare fredda equivale a un magnete attaccato a una lavagna (strani sono i meandri in cui mi ritrovo quando violo la regola di non vagare senza meta su YouTube). Il video originale sarebbe questo, ma forse è meglio iniziare da questa “reaction”:

Infine, per riprendersi, un time lapse della vita di un girasole:

I miei ultimi contenuti

Dopo circa un milione di anni ho pubblicato un nuovo blocco di note, quelle di Ultralearning, un libro non male sul tema dell’ottimizzazione dello studio:

Ultralearning — Scott Young


E per finire, anche questo mese, ecco due nuovi video basati su miei testi già pubblicati come post/newsletter:

Fare scelte giuste per le ragioni sbagliate

Il virus vi è entrato nel cervello | La pandemia memetica